I racconti contenuti in questa seconda raccolta sono dodici. Anche questa volta non ho romanzato fatti realmente accaduti o personaggi realmente esisiti. Come nel primo volume, come in Belli e dannati, lo spunto di partenza, vero, è solo il pretesto per scrivere di fantasia. Ogni cosa è documentata. Dietro a ogni racconto c’è comunque ricerca. I personaggi dei miei racconti non vincono gare che non hanno vinto in realtà e non conquistano titoli mondiali che non sono mai riusciti a far loro nel mondo reale. Diventano piuttosto personaggi di una sorta di mondo parallelo, nel quale il lettore entra pari pari. Un mondo, quello delle corse degli anni Settanta, che in questi racconti funge da micro-cosmo nel quale si specchia la vita di tutti i giorni di uomini e donne catapultati – le donne, ahimè, loro malgrado – al centro della scena.
Come nel primo volume, i dodici racconti di Belli e dannati 2 sono presentati in ordine cronologico. Il primo è ambientato nel gennaio del 1971 ed è l’unico dei 26 in totale tra i due volumi a non essere ambientato direttamente in Formula 1, anche se il protagonista del racconto è un pilota di Formula 1. L’ultimo racconto è ambientato nel luglio del 1979. Come nel precedente volume, anche questi dodici racconti non li ho scritti nell’ordine in cui li presento, ma questo importa poco. Il primo che ho scritto, se a qualcuno interessa, è IL TERZO UOMO, che avevo pensato di includere nel primo volume, ma non avevo scritto all’epoca (c’erano, cioè, solo l’idea e il titolo).
Come nel primo, anche in questo secondo volume ogni racconto è accompagnato da una illustrazione realizzata appositamente dal celebre Bi Studio di Marco Bianchini. Qui sopra trovate l’illustrazione definitiva del racconto SUL FAR DELLA SERA. Quelle che invece troverete più avanti sono le matite che hanno portato alla realizzazione delle illustrazioni definitive di alcuni degli altri racconti.
Il primo racconto parla di Ignazio Giunti. Ricordo l’incidente e ricordo che mio papà prese un foglio di carta sul quale disegnò la traiettoria delle vetture coinvolte per spiegarmi la dinamica di un incidente che definire ‘folle’ è dire poco. E che costò la vita a un pilota italiano che – chissà? – avrebbe potuto diventare campione del mondo con la Ferrari. Giunti è stato una delle tante, troppe, promesse incompiute di uno sport all’epoca crudele. Questo racconto parla però anche dei tanti cronisti dell’automobilismo sportivo, che all’epoca raramente diventavano dei personaggi e si sobbarcavano trasferte spesso tremende. Ma non abdicavano mai al loro modo di pensare.
Non era il primo incendio che Leo vedeva su un circuito. Era nell’ambiente da abbastanza anni da aver visto una dozzina di roghi. Ma una colonna di fumo così nero non l’aveva mai vista. Quattro anni prima era a Montecarlo quando il fuoco aveva divorato la Ferrari di Bandini. Quella volta l’incendio si era alimentato della paglia delle balle poste a protezione. Leo ricordava perfettamente la lunga colonna di fumo che si era alzata sul lungomare di Monaco e che saliva nel bel cielo azzurro di primavera. Ogni volta che ripensava a quell’incidente e a quel fumo gli venivano i brividi. Eppure neppure quella colonna di fumo nel cielo limpido del Mediterraneo era nera come questa che si era alzata sotto il cielo basso e cupo e pesante di Buenos Aires. LA STIRPE DI CAINO
Jean-Pierre Beltoise è chiaramente l’anti-eroe del primo racconto. Ma così come ci sono inevitabili ombre in ogni eroe, ci sono sempre delle luci anche negli anti-eroi. Questo racconto introduce peraltro il tema della ‘prima vittoria,’ che è una delle chiavi di lettura di questo volume – la difficoltà nel raggiungerla e, magari, come nel caso di Beltoise a Monaco nel ’72, la stupefacente facilità nell’ottenerla dopo averci di fatto rinunciato.
Era un anno e mezzo che non saliva più sul podio. E a trentacinque anni e senza aver mai ottenuto una sola vittoria, erano in molti a ritenere che la sua carriera avesse già dato tutto quello che poteva dare. Una buona fetta degli addetti ai lavori gli aveva voltato le spalle un anno e mezzo prima, quando era stato coinvolto nell’incidente che era costato la vita a Giunti. Era stata la dinamica dell’incidente che aveva fatto infuriare la gente. Beltoise era restato senza benzina e stava spingendo la sua vettura verso i box. Era un’operazione pericolosa, una manovra assurda. Andava fermato, ma nessuno lo aveva fatto. E lui aveva continuato, fino a quando era arrivato Giunti, che non lo aveva visto e aveva preso in pieno la vettura. C’era stato un incendio e Giunti era morto carbonizzato. CASINO ROYALE
Cosa spinge un pilota a correre i rischi che corre? Ho provato a rispondere nel racconto che vede protagonista Peter Revson, il pilota americano erede dell’impero dei cosmetici Revlon. Dico ‘provato’ perché non è detto che ci sia riuscito.
“Lo immagino. Se non fai questo mestiere, non è facile capire. E ti confesso che ci sono momenti, magari quando meno me lo aspetto, che una voce dentro di me riesce quasi a convincermi che quello che sto facendo non ha alcun senso. Una voce. Che arriva del tutto inaspettata. Immagino sia il mio subconscio. Ogni cellula del mio cervello cerca di convincermi che quello che faccio è privo di senso. Tra una gara e l’altra c’è sempre almeno un momento in cui un pilota arriva a un passo dall’abbandonare tutto. Ma la realtà è che non lo fai perché quello che provi quando sei al volante di un’auto da corsa è una cosa impossibile da descrivere.” ARGENTERIA DI FAMIGLIA
Ancora il tema della prima vittoria – ma tanto altro. Un omaggio alla Hesketh, una squadra di professionisti che non sembravano tali ma che, a dispetto delle apparenze, non lasciavano nulla al caso. Il tributo a una piccola squadra che riuscì a raggiungere il vertice perché i componenti dell’insieme seppero fare le cose per bene e perché all’epoca la cosa era ancora possibile. E naturalmente un omaggio a Master James, uno dei piloti più sottovalutati nel nostro paese. Purtroppo.
Era l’alchimia tra i componenti di un insieme che dall’esterno appariva improbabile che continuava a sfuggire a chi si scervellava per capire cosa tenesse insieme una squadra che rifuggiva da qualunque schema e che faceva capo a un giovane aristocratico di ventiquattro anni che era per forza di cose il padrone del vapore, se non altro perché era lui che ci metteva i soldi, ma dove ognuno prendeva le decisioni che gli competevano senza condividerle con gli altri e neppure con il capo – a cui questo modo di fare andava a genio perché non creava tensioni e comunque funzionava. FESTA MOBILE
La storia è di pura fantasia. Ma parte da indiscrezioni che all’epoca arrivarono sulle pagine dei giornali. È il racconto più lungo non solo di questa raccolta, ma anche della precedente. Di fatto è il racconto più lungo che abbia mai scritto.
Il primo campanello di allarme suonò quando l’ultimo dirigente a prendere la parola, che era chiaramente quello che aveva in mano il gioco e per questo si era riservato il ruolo di parlare dopo tutti gli altri, parlò del sogno più grande, quello di conquistare il campionato del mondo con una vettura brasiliana guidata da un pilota brasiliano. Ma siccome il discorso era finito lì e Wilson era pur sempre un pilota brasiliano, Emmo aveva accettato le testimonianze di affetto e di ammirazione e si era preparato a prendere la parola per spiegare come avrebbe sostenuto la squadra nella stagione successiva e come, se necessario, avrebbe potuto raccogliere importanti finanziamenti da altri sponsor, cosa che, per un due volte campione del mondo, era relativamente semplice da fare. CANNA DA ZUCCHERO
Nelle prime pagine del primo libro che Giovannino Guareschi dedica a Don Camillo, c’è un accenno di storia che ha a che fare con un padre che, una sera, ha una resa dei conti con il Cristo che sta dietro all’altare in una di quelle chiesette di campagna di quel suo Mondo Piccolo a ridosso del grande Fiume. Non è uno dei racconti di Don Camillo. È una sorta di anticipazione. Una gemma che Guareschi regala ai suoi lettori con quella leggerezza che contraddistingue i grandi scrittori. Sono partito da quella immagine per scrivere un racconto che con quella immagine termina. Il racconto si intitola LA NOTTE CHE DIO EBBE PAURA, ed è stato pubblicato in anteprima su AUTO ITALIANA nel 2021. È naturalmente dedicato ai figli di Guareschi, gli amici Carlotta e Alberto Guareschi.
(L’immagine che segue è lo studio a matita dell’illustrazione che compare nel libro come accompagnamento al racconto LA NOTTE CHE DIO EBBE PAURA).
Il vecchio Lauda gli aveva risposto di no. L’operazione, aveva dichiarato in tono che non lasciava spazio ad alcun appello, non aveva alcun senso da un punto di vista finanziario per la banca di famiglia. La banca non avrebbe mai guadagnato denaro da quel prestito. C’erano troppe incertezze. Era tutto troppo vago. Il nipote non aveva gradito. Anche perché era andato dal nonno dopo che il padre gli aveva già sbattuto in faccia la porta dell’altra banca di famiglia. Niki era riuscito ad ottenere un prestito per avere il denaro che gli serviva per correre solo da un’altra banca. L’unica banca che lo aveva ascoltato era la principale concorrente delle banche di suo padre e di suo nonno e Niki sapeva che non era un caso. Sapeva che non gli avevano dato del denaro perché credevano in quello che faceva, ma solo e semplicemente per dare contro al vecchio Lauda. Niki non chiedeva una somma ingente e qualcuno nell’altra banca doveva aver pensato che correre il rischio di perdere una cifra in fin dei conti irrisoria per il piacere di poter rinfacciare al vecchio Lauda il successo del nipote valeva l’azzardo. LA NOTTE CHE DIO EBBE PAURA
Così come il racconto che segue, avevo pensato di scrivere UNA GIORNATA DI PIOGGIA per il primo volume. Poi mi sono reso conto che avrei avuto troppi racconti ambientati non tanto nella stagione di corse 1976, quanto attorno all’incidente di Lauda al Nurburgring. In B&D dell’incidente di Niki si parla in tre racconti: IL VECCHIO, GATTO SOTTO LA PIOGGIA e COME UN BUON VINO. Per quanto mi sia reso conto che, almeno nella mia visione della Formula 1 degli anni Settanta, l’incidente del 1° agosto ’76 è una sorta di spartiacque, non volevo neppure che metà del libro avesse a che fare con il rogo del Ring. Da qui la decisione di spostare due racconti che già avevo in mente di scrivere ad una successiva raccolta. E in realtà ne avrei un altro ancora, che metterò, immagino, nel prossimo libro.
(L’immagine che segue è lo studio a matita dell’illustrazione che compare nel libro come accompagnamento al racconto UNA GIORNATA DI PIOGGIA.)
Quando videro i meccanici che iniziavano ad affaccendarsi intorno alla Ferrari col numero 1 dipinto sul musetto e sulle fiancate, i fotografi che stazionavano davanti al box della Ferrari dalle prime ore della mattina si calcarono sulla testa un berretto o tirarono su il cappuccio degli impermeabili, chiusero gli ombrelli e impugnarono con entrambe la mani le macchine fotografiche. Nessuno di loro poteva permettersi di perdere il momento preciso in cui il campione che tornava dalla tomba si infilava nella propria monoposto per la prima volta dopo l’incidente che gli era quasi costato la vita. UNA GIORNATA DI PIOGGIA
Carlos Reutemann mi ha sempre affascinato come persona. Un uomo di uno spessore incredibile – e infatti, non a caso, dopo avere attaccato il casco al chiodo diventerà il governatore dello stato di Santa Fe nella sua Argentina e, successivamente, un senatore della Repubblica. Per essere chiari, mi è sempre sembrato più maturo di tutti i suoi colleghi. Ed è forse per questo suo spessore che, travisato in larga parte, Ferrari finì col definirlo “tormentato e tormentoso.” In IL TERZO UOMO l’ho immaginato a Monza nel fine settimana in cui lui debutta con la Ferrari, che l’ha preso al posto di Niki, che il Drake considera finito dopo l’incidente del Nurburgring, ma che proprio a Monza torna inaspettatamente alle corse.
Lole la guardò e sorrise. Era un bell’uomo con una faccia vagamente malinconica. I suoi lineamenti erano severi quando era di buon umore e diventavano tristi quando era accigliato. Con i suoi capelli lunghi e neri come il carbone e quegli occhi tondi che parevano disegnati da Giotto, lei era bella come una Madonna fiorentina. IL TERZO UOMO
Un altro degli eroi sfortunati della mia Formula 1 è Ronnie Peterson. Sfortunato per la fine che fece, naturalmente, perché in vita la maggior parte dei suoi colleghi avrebbero fatto carte false per essere lui – o, quantomeno, come lui. Di Ronnie volevo già scrivere nel primo volume. Allora avevo pensato di scrivere qualcosa che avesse a che fare con la rivalità a tre tra lui, Fittipaldi e Chapman che costò ai due piloti il titolo 1973 – e non è detto che non riprenda l’idea in futuro. Per B&D2 ho pensato invece di ambientare il racconto nel fine settimana del suo ultimo gran premio, Monza 1978. Ronnie sta facendo piani per il proprio futuro nel momento stesso in cui il destino sta disponendo altrimenti, che è poi l’essenza delle corse di quegli anni. Il titolo mi ha dato da pensare non poco. Il titolo di lavoro di questo racconta era SUMMER WIND perché a Monza si corre che è ancora estate, ma l’autunno è già alle porte. In inglese funzionava. In italiano no. Così mi è venuto SUL FAR DELLA SERA, che naturalmente ha anche un valore simbolico. Detto per inciso, anche l’illustrazione ci ha dato di che pensare.
Invece di frenare come facevano tutti gli altri, Ronnie metteva la macchina di traverso con una fisicità che altri piloti non sapevano neppure esistesse. I giornalisti non ci credevano fino a che non lo vedevano, e per Marcus divenne col tempo una sorta di rito portare gli scettici all’interno della Woodcote perché vedessero di persona e si ricredessero. Il segreto stava tutto nei due piedi, con i quali Ronnie dosava come solo lui sapeva fare i pedali dell’acceleratore e della frizione per mantenere la vettura allo stesso tempo in piena velocità e in pista – Marcus aveva paragonato il gioco di piedi di Ronnie alla Woodcote allo sfarfallio delle scarpette di Ali sul ring e con questo paragone era diventato famoso pure lui. SUL FAR DELLA SERA
È una delle pagine più tristi di un decennio in cui di tristezza ce n’è stata tanta, ma sempre collegata a incidenti in pista o fuori. Tuttavia è una storia che volevo raccontare perché andava raccontata. Non solo per la palese ingiustizia perpetrata ai danni di un giovane pilota che non c’entrava nulla, ma che era diventato il capro espiatorio perfetto. Ma anche e soprattutto perché metteva in evidenza il lato oscuro di personaggi insospettabili, che in altre pagine di questo stesso libro – e del primo – sono di fatto eroi. Eroi che, come tutti, sono prima di tutto degli essere umani, con tutto quel che ne consegue. Il racconto è dedicato al mio amico Nestore Morosini, il grande inviato del Corriere della Sera, che morì nei giorni in cui lo stavo scrivendo.
(L’immagine che segue è lo studio a matita dell’illustrazione che compare nel libro come accompagnamento al racconto IL TRIBUNALE.)
Poco, ma era uno dei quei piloti che venivano pagati per correre. E questa, a tanti occhi, poteva sembrare o addirittura essere una colpa. O comunque un motivo per non prendere la sua difesa. Fatto fuori Riccardo, il suo posto avrebbe potuto essere preso da un pilota con la valigia piena di denaro, e allora tutto si sarebbe sistemato – i colleghi perché avrebbero avuto il loro colpevole, l’opinione pubblica perché avrebbe saputo chi aveva spinto Peterson nella tomba e gli uomini nelle stanze dei bottoni perché ci sarebbe magari scappato qualche cosa anche per loro grazie a quello nuovo. IL TRIBUNALE
Colin Chapman è stato un uomo eccezionale. In vita lo chiamavano il ‘Ferrari d’Inghilterra.’ Come Ferrari, nessuno era amato e al tempo stesso odiato come lui. A me è sempre piaciuto. Nonostante la sua supponenza meravigliosamente inglese e le tante ombre nel suo carattere. Anzi, probabilmente proprio per questo. Ad un certo punto, però, mi sono reso conto che il Chapman che stava uscendo dai miei scritti – i racconti dei due BELLI E DANNATI, ma anche il Chapman di un romanzo che non ho ancora pubblicato – era un personaggio oltremodo cinico. Sia chiaro, Chapman era un cinico. A quei tempi non potevi dirigere una squadra corse e non essere cinico. Tutto l’ambiente era per forza di cose cinico. Diamine, in pista si moriva! Ma così come tutti gli altri, Chapman non era solo un cinico, ruolo che i miei racconti sembravano avergli riservato. Da qui l’idea di mettersi nei suoi panni. Non dico, prenderne le difese, perché Colin non aveva bisogno di essere difeso da nessuno. Dico solo, mettersi nei suoi panni.
Cosa ne sapeva la gente, la stampa, l’opinione pubblica di quello che lui provava quando un pilota moriva al volante di una sua automobile da corsa? Cosa ne sapevano i giornalisti di come ci si sente quando un pilota che tu hai voluto e che per mesi o per anni hai incontrato ogni giorno che Dio manda in terra resta vittima di un incidente mortale mentre guida una vettura che tu hai progettato? Che diritto avevano le persone di criticare e giudicare e condannare il progettista di un’auto da corsa? FIORE DI LOTO
Di Clay Regazzoni avevo indirettamente scritto nel racconto di B&D TENERA E’ LA NOTTE, dove il protagonista è in realtà il suo capo meccanico Giulio Borsari. Ma gli spunti erano tanti per un pilota che ha attraversato la propria epoca come pochi. Ho scelto così di raccontare la sua ultima vittoria – o meglio, tutto quanto circonda, emotivamente, la sua ultima vittoria. Vittoria nella quale, a quel punto della sua carriera e a quell’età, ormai non credeva più nessuno. Tranne Clay, naturalmente. Il titolo del racconto è naturalmente un tributo alla sua bellissima autobiografia, scritta a quattro mani con l’amico Cesare De Agostini, al quale è dedicato questo racconto che chiude la raccolta.
Anche se il suo compleanno non cadeva che in autunno, l’estate in cui compiva quarant’anni tutti lo consideravano un vecchio. E c’era chi, oltre a considerarlo vecchio, lo considerava finito perché non vinceva una gara da molto tempo e Clay non ne vinceva una da quando si era aggiudicato il suo ultimo gran premio con la Ferrari, sotto il sole della California, nella primavera di tre anni prima. QUESTIONE DI CUORE